Un braccio entra dentro al petto afferra il cuore e lo stritola

la potenza evocativa della memoria, istinto naturale che custodisce l'esperienza umana, il vero tesoro che possiamo passarci all'infinito, di cui noi soli abbiamo responsabilità ed arbitraria custodia, l'unico che ha la nostra stessa vita, che morirà quando, tutti, non ci saremo più.

così mi è venuto in mente di chiederle qualcosa, non so perché. caso strano, è la mia nonna da molti anni, ma mai le avevo domandato qualcosa che la portasse a ricordare. coinvolto, a tratti colpito e invaso dalla tristezza, non volevo più andar via. 
togli il tavolo, togli il piano cucina, togli le piastrelle, togli i muri, i quadri, i soprammobili e i divani, togli la televisione ed il bagno, togli il letto e la camera, togli l'erba del giardino e quella dentro i vasi, togli i gatti intorno, togli l'automobile parcheggiata fuori, togli questa tuta e queste scarpe, togli l'acqua potabile e il piatto di pasta, togli i denti nuovi e gli occhiali, togli il grembiule, togli i fornelli, togli lo straccio inzuppato e sporco.
basta che ci mettiamo qui, e te mi racconti. non serve altro, se non la tua memoria, il tuo modo di comunicarmela, e la mia facoltà di riceverla.

"il babbo lavorava in fonderia, e durante le feste gli regalavano delle cose...giocattoli".
l'ha detto con un tono impossibile, che non mi sarei mai immaginato. come un capolavoro ascoltato per la prima volta.
"sì, erano bambole, bambolotti. nel vicinato avevamo famiglie che stavano bene, e io le regalavo a loro. noi giocavamo con la terra, e coi sassi".

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